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E voi ce l’avete un diario in cui annotare i pensieri?
Parole, idee, frasi che non seguono necessariamente un filo logico, perché hanno solo il compito di rendere concreti collegamenti che normalmente restano a livello del pensiero, rispondendo all’unica promessa di sincerità con se stessi.

Nina un diario ce l’ha, le sue pagine sono volate a Torino, sui banchi del Salone del Libro appena concluso.
Ma non è un diario come tanti altri, perché su quei fogli è raccontato un istante che vale una vita.

Nina è la protagonista del libro “Dovevo chiamarmi Irene” di Simona Mangiapelo, pubblicato dalla casa editrice Scatole Parlanti.

“La pace non abita nei nomi”, eppure Nina crede che in quel suono che per puro caso le è stato assegnato alla nascita sia racchiuso il suo destino, sbagliato, ingiusto, perché lei avrebbe dovuto chiamarsi Irene. E Irene significa “pace”. In questo diario, avvolgente e drammatico, la narrazione di Nina si mischia a quella del figlio, Michelangelo, ragazzo geniale ma sfigurato a causa di un incidente domestico avvenuto in precoce età: due voci che si rincorrono ma che non riescono mai a incontrarsi. Nina ripercorre la sua vita dall’infanzia, cerca di redimersi attraverso la scrittura, annota fatti e sensazioni, la sua dualità di donna divisa tra la maternità e il desiderio di essere amata, cercando di scorgere quella verità, dolorosa ma salvifica, che risiede nell’accettazione di essere unicamente ciò che siamo, al di là del bene e del male.

Dopo “Di nessuno”esordio del 2017 con Alter Ego Edizioni – Simona Mangiapelo torna in libreria con un nuovo romanzo in cui la scrittura è chiamata al suo ruolo terapeutico, al fine di approdare alla verità.

La vicenda è narrata attraverso le pagine di un diario che un figlio scopre durante l’adolescenza, ma non leggerà prima dei trent’anni. In quelle pagine c’è una madre in cerca di pace, in cerca di amore, contraddittoria e tormentata.

Per Michelangelo quella non può essere la stessa donna della polaroid, quella che stringe tra le braccia il suo bambino con gli occhi colmi di luce; perché un genitore non si lascia sopraffare dalle emozioni e dagli istinti. Sogni, paure, desideri, sesso, rabbia, gelosia non appartengono a quell’immagine perfetta di cui un figlio veste una madre.
Un genitore non può permettersi distrazioni ed egoismi.
Ma un genitore è prima di tutto un figlio.
In quel vuoto esistenziale che abita Nina, prevale la paura di non poter esistere senza l’amore dell’altro.

Simona Mangiapelo porta alla luce una vicenda che potrebbe provenire da un fatto di cronaca. Chissà quali sarebbero stati i nostri pensieri davanti a una notizia che suona già come una condanna?

Quella di Nina non è una semplice storia di carta e d’inchiostro. Il campo della finzione invade la realtà. Non c’è consolazione, ma neanche giudizio.

C’è l’amicizia. E poi c’è l’amore. Che va oltre al modo in cui normalmente lo intendiamo.

C’è sperdimento, ma anche consapevolezza delle proprie emozioni e fragilità, senza la fatica di rinnegare il proprio malessere.

C’è l’invito a riconoscere i momenti felici, per viverli e farne scorta; e poi rinnovarli di nuovo nella memoria per sentire ancora quell’odore e quel calore che ci hanno fatto sentire vivi una volta.

Il diario di Nina è la stanza in cui prende vita un dialogo a tre, perché non esiste distanza tra i due protagonisti e il lettore. A un certo punto la sedia inizierà a scottare, ma sarà un dolore necessario per arrivare a quella verità nascosta nel profondo che non si può più fingere di non vedere.